4.  IL MEIC PER IL RINNOVAMENTO DELLA CHIESA

«Come è importante per il mondo che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano» (GS 44). La Chiesa quindi dalla storia degli uomini impara qualcosa di essenziale per il suo stesso essere Chiesa; nei confronti del mondo essa è in qualche modo debitrice della sua capacità di comprendere quel Vangelo di cui vive.

Storia significa anche limite e crescita, perché la Chiesa è un popolo pellegrinante che avrà il suo pieno compimento con la venuta del regno di Dio. Siamo convinti, per riprendere le parole pronunciate da Giovanni XXIII sul letto di morte, che “non è il Vangelo che cambia, siamo noi a capirlo meglio”.  Qui – in una sempre più profonda appropriazione credente delle ricchezze del Vangelo – sta la radice di una Chiesa che non smette mai di conformarsi ad esso, imparando  – nel tempo e grazie anche al confronto con la storia degli uomini – a comprenderlo sempre meglio.

In quanto associazione di cristiani laici che condividono la vita delle donne e degli uomini del loro tempo, il MEIC si sente chiamato a favorire questo apprendimento decisivo che la Chiesa può trarre dalla storia e dall’evoluzione del genere umano.

In ascolto del Vangelo, ma con un orecchio allenato dalla condivisione e dall’ascolto delle gioie e dei dolori, delle attese e delle speranze delle donne e degli uomini del nostro tempo, il MEIC si propone di approfondire e di portare all’attenzione dell’intera comunità cristiana alcune tematiche che ritiene particolarmente importanti per il rinnovamento della Chiesa del nostro tempo. Si tratta di un rinnovamento che – prima ancora che le strutture – riguarda lo stile della nostra vita cristiana ed ecclesiale.

Da tempo, infatti, si sperimenta una certa stanchezza nel reiterare uno stile di vita cristiana ed ecclesiale che non corrisponde pienamente al “senso della fede” (LG 12) del popolo di Dio, ovvero al grado di maturazione a cui siamo oggi giunti nella comprensione del Vangelo: siamo coscienti di essere gravemente in difetto rispetto alle esigenze che il Vangelo ci pone, come singoli e come comunità.

Riteniamo che ogni rinnovamento trovi il suo luogo di realizzazione in una Tradizione vivente garantita dall’azione dello Spirito Santo: Tradizione che veneriamo come preziosa, e che ci abilita a esercitare oggi la libertà e la creatività dei figli di Dio, con fede e senza paura. In questo senso diffidiamo di ogni visione fissista della Tradizione, che la riduca a un museo di tesori nel quale chiudersi, in fuga da un presente che non ci piace e che ci spaventa. La crisi di tante realtà ecclesiali alla quale stiamo assistendo costituisce probabilmente la fine di un mondo, ma certamente non la fine del mondo: non è anzi detto che in questo passaggio epocale non vi sia qualcosa di provvidenziale, che ci chiama a una creatività rinnovata. Con Giovanni XXIII vogliamo ripetere: “è soltanto l’aurora!”.

Sollecitati dall’esempio e dal magistero di papa Francesco, che ci invita a una “conversione pastorale”, raccogliamo questa esigenza di un rinnovato stile ecclesiale intorno a tre parole che riteniamo debbano caratterizzare in maniera sostanziale il nostro essere Chiesa per il futuro: povertà, accoglienza, sinodalità. Un tema che in modo trasversale attraversa queste tre parole è la non più rinviabile questione della soggettività femminile, articolata nella triade donna-Chiesa-mondo.

4.1 Per una Chiesa povera e dei poveri

Riteniamo che ogni rinnovamento della nostra vita cristiana ed ecclesiale debba passare per una scelta di povertà radicalmente evangelica, irriducibile a una semplice opzione morale o sociologica. Scegliere la povertà evangelica significa riconoscere che tutte le condizioni di povertà e fragilità che incontriamo (economiche, culturali, di relazioni, legate alla malattia e alla sofferenza) sono il luogo privilegiato in cui è possibile comprendere realmente il Vangelo, in quanto luogo dell’affidamento totale e della rinuncia a ogni sicurezza idolatrica. Scegliere la povertà evangelica significa infatti mettersi alla sequela di Gesù Cristo, il quale volle per sé una vita povera, per i poveri e con i poveri. Questa  è una irrinunciabile condizione perché la nostra fede sia autentica e credibile.

Scegliere la povertà evangelica comporta un esame delle scelte personali e comunitarie, e per il nostro Movimento un impegno di studio e di analisi delle tante situazioni concrete con le quali ci troviamo confrontati:

– riconoscendo che il primo posto, nella città e nella comunità cristiana, spetta al più povero tra noi, vincendo così ogni tentazione di ridurlo a numero: a caso particolare di un problema sociale rispetto al quale ci sentiamo sempre inevitabilmente inadeguati (autogiustificandoci dunque rispetto alle nostre mancanze nei suoi confronti);

–       avendo consapevolezza che siamo amministratori di beni dei quali non siamo proprietari: singolarmente e come comunità (a tutti i livelli);

–       rinunciando ai privilegi che appesantiscono la nostra vita cristiana ed ecclesiale, rendendoci impacciati rispetto al dinamismo che il Vangelo ci domanda e goffi dinanzi al mondo: benefici economici talvolta  ingiustificati, scelte  che inquinano i rapporti ecclesiali e sociali, favori che ci rendono silenti di fronte al grido dei poveri;

–       ripensando concretamente al modo con cui gestiamo – come cristiani – i nostri beni personali e familiari, e ricercando uno stile di sobrietà e un’attenzione verso gli altri e verso la comunità, in nome di una redistribuzione dei beni che  trova fondamento nella loro originaria destinazione universale;

–       domandandoci, con altrettanta franchezza, se non dobbiamo riesaminare concretamente i modi con i quali – come Chiesa – finanziamo la vita e le opere delle nostre comunità cristiane, la nostra corresponsabilità di laici credenti anche sotto il profilo del sostegno economico delle stesse comunità, l’esigenza di essere trasparenti nelle scelte economiche che si operano, di sostenere lo sviluppo autopropulsivo e il lavoro cooperativistico, di destinare tanti immobili di proprietà di enti ecclesiastici oggi in disuso che potrebbero essere utilizzati in favore dei fratelli e delle sorelle più in difficoltà;

–       riconoscendo che il servizio della carità, inteso come attenzione e sostegno a tutte le persone che vivono situazioni di fragilità e difficoltà, non è – in seno alla comunità cristiana – un’opera marginale e di nicchia, riservata a pochi enti specializzati o a pochi individui particolarmente altruisti, ma è una dimensione costitutiva del nostro essere popolo santo di Dio;

–       avendo chiaro che le esigenze della carità sono nel contempo esigenze di giustizia, che impegnano i credenti a denunciare le diseguaglianze che opprimono i poveri, e a pensare e realizzare modelli nuovi di economia  e di vita sociale. Come movimento, ci sentiamo particolarmente impegnati ad accogliere gli stimoli che ci vengono dall’insegnamento di Papa Francesco, evidenziando sul piano della riflessione culturale i limiti dell’attuale sistema socio-economico, a partire dalla scelta preferenziale per i poveri, irrinunciabile per la comunità cristiana.

4.2 Per una Chiesa accogliente e fraterna: stabilire un dialogo con gli uomini e le donne di oggi, accettati nelle loro condizioni umane  e spirituali

Riteniamo che ogni rinnovamento della nostra vita cristiana ed ecclesiale debba inoltre necessariamente passare dalla scelta di uno stile accogliente, inclusivo e dialogante, che, affermando con pacatezza i valori evangelici di cui la Chiesa è portatrice, rinunci al giudizio delle persone, e sia fondato sull’esercizio della misericordia, che non è pietosa tolleranza derivante da una presunta superiorità morale e spirituale, ma condivisione dello stile stesso di Dio e del suo paradossale metro di giudizio, in forza del quale prostitute e pubblicani, riconoscendo umilmente di essere peccatori, ci “precederanno”.

In questo senso, la misericordia non è un rivestimento zuccherato, ma è il cuore stesso dell’annuncio del Vangelo, annuncio del fatto che – agli occhi di Dio – tutto è misurato diversamente: nessuno si salva con le proprie forze e in nome di una sua presunta giustizia, ma in forza di un Amore che sceglie chi si riconosce peccatore, affidandogli una missione di salvezza a vantaggio di tutti.

Soltanto da un simile atteggiamento può scaturire un’apertura e una simpatia davvero universale verso ogni donna e ogni uomo, di qualsiasi nazione, etnia e cultura. Da ciascuno possiamo imparare, come singoli e come Chiesa, qualcosa di essenziale in vista del nostro aderire sempre più profondamente al Vangelo. A ciascuno, poi, abbiamo il dovere di testimoniare la gioia del Vangelo sia a livello personale con la nostra vita quotidiana, che a livello comunitario e pubblico con una significativa presenza associata nella Chiesa e nel mondo.

Ma perché tutto questo sia possibile, occorre che ripensiamo la falsa alternativa tra dottrinale e pastorale, intesi rispettivamente come l’ambito della norma inflessibile e quello di una misericordia buonista (che non cambia realmente le cose). Le nostre sicurezze dottrinali troppo spesso assumono la forma di rassicuranti sicurezze umane garantite dalla certezza della “lettera”. La verità di Dio supera però ogni nostro tentativo di comprenderla e di dirla e richiede una pluralità di linguaggi alla quale accediamo soltanto attraverso lo scambio con donne e uomini di altre nazioni, di altre culture e finanche di altre religioni.

 4.3 Per una Chiesa sinodale che valorizzi le responsabilità e i carismi e recuperi il valore della franchezza

Saremo una Chiesa accogliente, inclusiva e dialogante con le donne e gli uomini del nostro tempo se sapremo esserlo anche al nostro interno: ovvero soltanto se questo stile di accoglienza, di inclusione e di dialogo sarà coltivato nella Chiesa, attraverso l’esercizio – ai vari livelli – di una sinodalità che diviene responsabilità condivisa, seppure nel rispetto della diversità dei carismi, dei ministeri e delle vocazioni.

A questo fine, riteniamo che sia necessario lavorare per superare ogni forma di corporativismo e di settarismo all’interno della Chiesa, i quali costituiscono una tentazione ricorrente e molto forte per le nostre comunità cristiane. Tale superamento richiede una conversione radicale dei singoli e delle comunità, attraverso:

–       una riscoperta della Chiesa quale popolo tutto sacerdotale, tutto profetico, tutto regale: una Chiesa all’interno della quale la varietà dei carismi, dei ministeri e delle vocazioni trova dunque senso, fondamento e origine nel comune battesimo, per comporsi in unità intorno al Vescovo, che di tale unità rappresenta il segno;

–       il superamento di alcune logiche corporative, che inquinano talvolta i rapporti tra fedeli laici e fedeli ordinati;

–       il superamento di alcune logiche settarie, in forza delle quali singole realtà ecclesiali– movimenti, associazioni, parrocchie… – ritengono di esaurire al proprio interno la totalità dell’esperienza ecclesiale, isolandosi in un atteggiamento di indifferenza nei confronti dei fratelli di altri gruppi, che indebolisce la comunione ecclesiale;

–       una riscoperta della liturgia quale fonte e culmine della comunione ecclesiale, di contro alla sua riduzione a luogo simbolico di uno scontro ideologico tra opposte fazioni, che poco o niente ha a che fare con il Vangelo;

–       una riscoperta del valore di un dialogo familiare, franco e libero all’interno della Chiesa, da attuare anche attraverso la costruzione e il rafforzamento di tutte quelle strutture di partecipazione sinodale nate nel post-Concilio, ma che nel tempo hanno perso spesso la loro  vivacità originaria (dal sinodo dei vescovi, alle conferenze episcopali, ai consigli pastorali diocesani o parrocchiali);

–       la maturazione di una diffusa libertà di parola, in forza della quale nella Chiesa si diffonda la convinzione che, salva l’unità della fede, si parla di tutto e si affronta liberamente – e pazientemente – ogni argomento, nel rispetto della carità reciproca, consapevoli che su alcune questioni occorre molto tempo prima che si possa giungere a una soluzione, ma consapevoli anche del fatto che – se non se ne parla – non si giungerà mai ad alcuna soluzione;

–       una riscoperta, attraverso un adeguato approfondimento teologico, della pluriformità (nell’unità) delle singole Chiese particolari, portatrici ciascuna di un proprio carattere, di una propria sensibilità, e dunque di una proprio sguardo sul mondo e di una propria specifica risonanza dell’annuncio del Vangelo;

–       una riscoperta di uno stile missionario che non è proselitismo, ma è testimonianza – innanzitutto con la vita – della gioia del Vangelo a tutte le donne e gli uomini del nostro tempo;

–       una riflessione teologica aggiornata e sull’apporto dell’associazionismo;

–       una promozione di forme effettive di corresponsabilità laicale.

4.4  Per una Chiesa che si apra ad una rinnovata soggettività femminile

Il riconoscimento effettivo dell’emancipazione della donna è divenuto la condizione di possibilità dell’evangelizzazione nel mondo; come afferma acutamente il teologo Joseph Moingt «poiché la missione evangelica è la ragion d’essere della Chiesa, l’accoglienza nuova che essa riserverà alla donna sarà il simbolo operante della sua presenza evangelica al mondo d’oggi, il pegno della sua sopravvivenza”.

La comunità ecclesiale deve allora imparare a valorizzare le donne, con una attenzione particolare alle generazioni più giovani che, nate dopo il riconoscimento dei diritti e cresciute in un contesto culturale post-femminista, sperimentano tutta la fatica di trovare un proprio spazio nella Chiesa e nella società.  

Su questo terreno la Chiesa deve muoversi secondo il chiaro percorso tracciato nei testi conciliari che hanno, innanzitutto, riconosciuto la parità uomo-donna nella comune dignità di tutti i battezzati: essi infatti, ancora prima di ogni altra legittima distinzione, sono membri del popolo di Dio e hanno assegnato, alle donne non meno che agli uomini, il compito di essere artefici e attori della cultura della propria comunità (cfr. GS nn. 29 e 55).

Alla luce dell’insegnamento conciliare occorre avere il coraggio di segnalare e superare talune rigidità che talvolta hanno caratterizzato il Magistero e la stessa vita delle comunità ecclesiali, all’interno delle quali è possibile riscontrare un paradosso per cui alle molteplici responsabilità affidate alle donne (dai servizi materiali a quelli legati alla catechesi) non corrispondono spesso né poteri decisionali effettivi né incarichi di rappresentanza pubblica.

Si tratta di riscoprire la forza delle donne espressa nello stesso annuncio evangelico: è Maria di Nazareth che nel suo bellissimo Magnificat offre un manifesto del Dio liberatore, ed è Maria di Magdala, che riceve il mandato di portare la buona notizia della resurrezione ai suoi compagni, mentre questi erano immobilizzati dalla paura (cfr. Mc 16,10 e Gv 20,17).

Ciò comporta anche il superamento di visioni meramente androcentriche ancora diffuse. É sintomatico che Paolo sia ricordato più facilmente per il pregiudizio antifemminista di 1Cor 11,12-16;14, 34-36 (riferito alla tensione interna di una singola comunità) che per la dichiarazione sulla fine delle discriminazioni, comprese quelle tra uomini e donne, di Gal 3,26-28.

La sfida del cambiamento coinvolge anche le associazioni ecclesiali e, tra queste, il nostro Movimento. Non si tratta tanto di aderire alla logica delle quote rosa, ma di attuare l’etica del riconoscimento, che passa anche attraverso l’attenzione all’uso di un linguaggio inclusivo, la valorizzazione delle figure femminili negli appuntamenti di studio e di riflessione nazionali e locali e il coinvolgimento di queste nei ruoli istituzionali.

 

5. Il MEIC per il rinnovamento del